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RECUPERATO DAI RESTI DI UN NAUFRAGIO AVVENUTO NEL PRIMO SECOLO AVANTI CRISTO
Il Meccanismo di Antikythera Sono ottantadue frammenti in bronzo conservati al Museo archeologico di Atene. Ricoperti di iscrizioni in greco antico, all’interno contengono ruote dentate e ingranaggi. Insieme formano il Meccanismo di Antikythera, un antico strumento astronomico che permetteva di calcolare la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti conosciuti all’epoca. A più di un secolo dalla sua scoperta, molti aspetti dell’antico calcolatore sono ancora irrisolti.
Claudia Sciarma 29/07/2022

Dal 23 maggio al 15 giugno 2022 è stata completata la seconda spedizione di archeologia subacquea nei pressi di Antikythera, una piccola isola fra Creta e il Peloponneso, dove più di duemila anni fa affondò una nave commerciale. La spedizione fa parte di un programma quinquennale, che si concluderà nel 2025. La 26 ricerca è condotta dalla Scuola svizzera di archeologia in Grecia e l’obiettivo principale è comprendere in modo più chiaro quali fossero le caratteristiche della nave affondata, il suo carico e la sua rotta.
Il relitto di Antikythera è stato scoperto per caso da un gruppo di pescatori di spugne nel 1900. Dalle acque, sono stati recuperati oggetti in vetro, statue in marmo e bronzo, anfore e un misterioso oggetto in bronzo, che prende il nome di Meccanismo di Antikythera.
Il Meccanismo di Antikythera era uno strumento astronomico che permetteva di predire il moto della Luna, le eclissi e la posizione del Sole e dei cinque pianeti conosciuti all’epoca, cioè Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno Attualmente, si pensa che sia stato costruito fra il terzo e il primo secolo avanti Cristo. Lo strumento era dotato di un sofisticato sistema di ingranaggi e ruote dentate e veniva azionato a mano. Il Meccanismo, probabilmente, era contenuto in una cornice in legno e complessivamente era lungo trenta centimetri, largo venti centimetri e spesso dieci centimetri.
Oggi, rimangono solo ottantadue frammenti di dimensioni diverse, che corrispondono a circa un terzo dello strumento. Quelli più grandi sono indicati con le lettere da A e G, mentre i più piccoli con i numeri da 1 a 75. I frammenti sono conservati al Museo archeologico nazionale di Atene e da più di un secolo sono oggetti di studi.

Si sono dedicati allo studio del Meccanismo di Antikythera studiosi e studiose provenienti da ambiti diversi, dall’archeologia all’orologeria, dalla storia dell’astronomia alla fisica dei raggi X. Grazie ai risultati raggiunti nel corso degli anni si è capito che il Meccanismo combinava i cicli astronomici babilonesi, con la matematica dell’Accademia di Platone e con le teorie astronomiche dell’antica Grecia. Tuttavia, molti aspetti rimangono ancora irrisolti.
Negli anni Settanta è stata effettuata la prima radiografia del Meccanismo: per la prima volta si riesce a guardare dentro i frammenti. Furono così individuati i resti di ingranaggi e ruote dentate. Successivamente, analisi più approfondite hanno permesso individuare le iscrizioni sulla superficie e maggiori dettagli all’interno dei frammenti.
Il Meccanismo di Antikythera, infatti, è coperto di iscrizioni: complessivamente si stima che ci siano circa 15mila caratteri. Le prime iscrizioni che si riuscirono a leggere a inizio Novecento fecero capire che quei misteriosi frammenti in bronzo erano legati al moto dei corpi celesti. Nel 2005, grazie alla tomografia computerizzata a raggi X sono stati individuati più di duemila caratteri. Successivamente, nel 2016, fra le iscrizioni nella parte anteriore del Meccanismo, sono stati individuati due numeri legati ai cicli sinodici di Venere e Saturno, cioè legati al tempo necessario affinché un pianeta occupi la stessa posizione nel cielo rispetto al Sole per un osservatore sulla Terra. I cicli sinodici erano alla base delle previsioni sulla posizione dei pianeti nell’astronomia babilonese.
Nello specifico, sono stati studiati i frammentiG, 26, 29 e altri più piccoli con la tomografia computerizzata a raggi X. Le iscrizioni frontali descrivono i cicli sinodici dei pianeti e ogni pianeta ha una parte dedicata.
Il Meccanismo ha alcune caratteristiche tecniche abbastanza avanzate. Ad esempio, conteneva un sistema di ingranaggi tale da generare un moto rotatorio, dati due moti rotatori iniziali, con velocità pari alla differenza di due 27 moti. Inoltre, è dotato di un sistema di due ruote sovrapposte che ruotano attorno a due assi diversi, che prende il nome di “pin-andslot”. In questo complicato sistema di ingranaggi, il numero di denti delle ruote dentate non poteva essere casuale, ma dettato dalla meccanizzazione dei moti dei pianeti.

Il primo modello funzionante del Meccanismo di Antikythera è stato proposto dal fisico e storico della scienza Derek De Solla Price ed è stato poi costruito da Robert Deroski intorno agli anni Settanta. Questo modello non era corretto, ma è stato una base fondamentale per gli studi successivi. Nel 2021, il gruppo di ricerca sul Meccanismo di Antikythera dello University College London (Ucl) ha proposto un nuovo modello che soddisfa tutte le evidenze che si hanno a disposizione sul Meccanismo. Il prossimo obiettivo del gruppo è ricostruire con tecniche antiche lo strumento seguendo il nuovo modello per dimostrarne la validità.
Il gruppo dello Ucl ha usato un processo matematico sviluppato da Parmenide per spiegare i cicli di Venere e Saturno e per derivare anche i cicli degli altri pianeti su cui non si hanno informazioni a disposizione dai frammenti. Il processo di Parmenide, infatti, è un processo iterativo che permette di approssimare un numero reale con un intervallo compreso fra due numeri razionali. Ad esempio, per Venere, nell’astronomia babilonese la stima più rozza prevedeva 5 cicli sinodici in 8 anni e quella più accurata prevedeva 720 cicli in 1151 anni. Quest’ultima stima non era meccanizzabile, poiché 1151 è un numero primo e realizzare una ruota con 1151 denti non era certo un’impresa facile. L’ipotesi del gruppo è che sia stato usato proprio il processo di Parmenide per trovare un compromesso fra la stima più rozza e quella meccanizzabile più accurata.
Se per capire come funzionava il Meccanismo serve sapere quali erano le conoscenze scientifiche su cui si basava, è anche vero che capirne il funzionamento aiuta a scoprire quale fosse l’idea di cosmo diffusa all’epoca in cui è stato costruito. Nonostante i risultati raggiunti nel corso degli anni, molti aspetti del Meccanismo di Antikythera rimangono un mistero. Ad esempio, non sappiamo con precisione quando sia stato costruito e da chi sia stato realizzato.
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LO STUDIO SU ASTRONOMY & ASTROPHYSICS
Zeta Ophiuchi, giovane stella dalla vita complicata
Giuseppe Fiasconaro 29/07/2022
Un team di astronomi del Dublin Institute for Advanced Studies ha costruito i primi modelli magnetoidrodinamici dell’onda d’urto e delle bolle di emissione prodotte nel mezzo interstellare da Zeta Ophiuchi, una stella scagliata nel cosmo dopo l’esplosione della compagna come supernova. Sebbene i modelli ottenuti non si 28 adattino alle osservazioni, rappresentano un punto di partenza per meglio comprendere il presente – e il passato – di questa e altre stelle in fuga.

Zeta Ophiuchi è una stella di sequenza principale di classe spettrale O che si trova a circa 440 anni luce di distanza da noi. Sei volte più calda, otto volte più grande e venti volte più massiccia del Sole, la sua magnitudine apparente di 2.57 – un parametro che misura la luminosità delle stelle così come appaiono viste dalla superficie terrestre – ne fa la terza stella più brillante della costellazione dell’Ofiuco. È una giovane stella – la sua età stimata è di “soli” tre milioni di anni – ma ha un passato abbastanza complicato, essendo stata espulsa dal suo luogo di nascita da una potente esplosione stellare: precedenti osservazioni suggeriscono infatti che un tempo la stella avesse una compagna, attorno alla quale girava in orbita ravvicinata prima di essere spazzata via, a circa 24 chilometri al secondo, quando la compagna, giunta ormai a fine vita, è esplosa come supernova – più di un milione di anni fa.
Stelle fuggitive (runaway stars in inglese), così gli astronomi chiamano le stelle che sono andate incontro a questa sorte. Zeta Ophiuchi è dunque una sorta scheggia impazzita che attraversa la galassia come un proiettile. Le osservazioni della stella e dei suoi dintorni alle lunghezze d’onda dell’ottico, dell’infrarosso, del radio e dell’X – condotte rispettivamente dai telescopi Panstarrs, Spitzer Space Telescope, Vla e Chandra – hanno ora permesso di ottenere una nuova immagine composita dell’astro. La maestosa struttura a forma di arco che vediamo al centro è una spettacolare onda d’urto (bow shock in inglese) prodotta dalla stella mentre sfreccia a velocità supersonica nel gas e nella polvere interstellare, che vengono a loro volta riscaldati dal vento stellare emesso dalla stella – il puntino luminoso subito a destra e al centro della struttura – nell’infrarosso, la luce captata da Spitzer. La nube blu intorno alla stella è invece una bolla interstellare: gas che, riscaldato a decine di milioni di gradi dall’onda d’urto, emette nell’X. A rilevarla è stato il telescopio Chandra, sensibile a queste lunghezze d’onda. Proprio utilizzando i dati d’archivio di Chandra, un team di astronomi guidati dal Dublin Institute for Advanced Studies (Dias) ha messo a punto i primi modelli magnetoidrodinamici dettagliati di questa onda d’urto e della bolla a essa associata, per verificare se un semplice modello potesse spiegare i dati ottenuti alle diverse lunghezze d’onda, comprese quelle dell’ottico e del radio, e aiutare gli astronomi a comprendere meglio la storia presente e passata di questa stella. L’articolo che descrive i modelli, in uscita su Astronomy & Astrophysics, è consultabile come preprint su ArXiv. Dando in pasto a diversi codici una gamma di parametri stellari e del mezzo interstellare prodotti da precedenti osservazioni, i ricercatori hanno ottenuto tre modelli magnetoidrodinamici – Z01, Z02 e Z03 – che hanno infine utilizzato per simulare l’interazione del vento stellare con il mezzo e stimare l’emissione della bolla e dell’onda d’urto nell’infrarosso, nell’X a energie più basse (soft X rays) e nel radio (a 6 GHz), producendone le relative mappe.
Il modello Z01, spiegano i ricercatori, mostra un’intensità dell’emissione infrarossa e una distanza della stella dall’onda d’urto paragonabile alle osservazioni, sebbene l’angolo di apertura dell’onda fosse troppo piccolo. Nelle mappe di emissione simulata di raggi X la 29 maggior parte dell’emissione si verifica all’apice di una struttura che non ha la forma di una bolla bensì di un arco, in corrispondenza della discontinuità di contatto stella-onda d’urto; una regione di emissione non evidente nelle osservazioni. L’emissione X è inoltre significativamente più debole rispetto a quella nelle osservazioni di Chandra. il modello Z02 ha proprietà simili alla simulazione Z01 ma si adatta leggermente meglio ai dati osservazionali: l’angolo di apertura dell’onda d’urto è più vicino a quello dedotto dalle osservazioni nell’infrarosso e la morfologia dell’emissione di raggi X è più simile a quella di una bolla piena piuttosto che a un arco. Anche in questo, tuttavia, il flusso totale di raggi X diffusi è ben al di sotto di quello dedotto dalle osservazioni.
Il modello Z03, infine, mostra una elevata densità totale in tutte le parti dell’onda d’urto. L’emissione di raggi X è simile a quella osservata, ma resta comunque due volte più intensa, anche se il fattore 2 forse non è così significativo, sottolineano gli autori dello studio.
L’onda d’urto prodotta da Zeta Ophiuchi è la struttura più vicina alla Terra nella quale sia possibile studiare le bolle di emissione e i processi dissipativi del vento di una stella massiccia,e come tale è un laboratorio ideale per vincolare i processi fisici coinvolti, concludono i ricercatori. Questo primo studio non fornisce risposte semplici alle domande aperte circa questi meccanismi, ma può essere utilizzato come base per costruire modelli più complicati, volti a studiare gli effetti della turbolenza e dell’accelerazione delle particelle, per meglio comprendere il presente ma anche il passato di questa stella in fuga.
Per saperne di più:
▪ Leggi su ArXiv il preprint dell’articolo
“Thermal emission from bow shocks II: 3D magnetohydrodynamic models of Zeta Ophiuchi” di S. Green, J. Mackey, P. Kavanagh, T. J. Haworth, M. Moutzouri e V.
V. Gvaramdaze
ABBATTUTI I TEMPI DI CALCOLO. I RISULTATI SU NATURE ASTRONOMY
La massa dell’ammasso? Chiedila alla rete neurale
Guido Sbrogiò 29/07/2022
Un team di ricercatori del McWilliams Center for Cosmology della Carnegie Mellon University ha utilizzato algoritmi di machine learning per calcolare la massa dell’ammasso della Chioma, contenente oltre mille galassie. I risultati ottenuti coincidono con le misure precedentemente fatte, convalidando l’affidabilità dei metodi di calcolo basati sugli algoritmi d’intelligenza artificiale.

Avvalendosi di algoritmi d’intelligenza artificiale basati sull’architettura delle reti neurali artificiali, un team di fisici guidato da Matthew Ho della Carnegie Mellon University (Usa) ha calcolato la massa dell’ammasso della Chioma: circa un milione e mezzo di miliardi di masse solari – un valore consistente con quanto calcolato dalle stime precedenti. Il risultato è stato pubblicato il mese scorso su Nature Astronomy. I sistemi di intelligenza artificiale basati sulle reti neurali permettono di addestrare gli algoritmi attraverso dataset in input, così che siano poi in grado di analizzare successivamente nuovi dati in modo autonomo, senza bisogno 30 di conoscere alcun modello. Gli ammassi di galassie sono sistemi fisici complessi a Nbody e calcolare la dinamica di queste strutture nelle simulazioni richiede dei tempi computazionali che aumentano esponenzialmente con la complessità del sistema. Le reti neurali permettono di risolvere problemi di questo tipo e prevedere le proprietà dinamiche dell’ammasso senza un calcolo diretto delle equazioni differenziali che descrivono il modello, consentendo così un abbattimento dei tempi di calcolo.
L’ammasso della Chioma si trova a circa 350 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, in direzione dell’omonima costellazione. Questo ammasso, catalogato come Abell 1656, ha avuto una certa importanza nella storia dell’astrofisica: fu studiato negli anni ‘30 dall’astronomo svizzero Fritz Zwicky per predire l’esistenza della materia oscura. Applicando il teorema del viriale, Zwicky notò che non veniva rispettato: le velocità intrinseche delle galassie – determinate grazie allo spostamentoDoppler – erano troppo elevate affinché Abell 1656 rimanesse in equilibrio. Zwicky ipotizzò così l’esistenza di materia oscura non visibile, necessaria a permettere all’ammasso di rimanere in equilibrio dinamico e di spiegare così la velocità orbitale delle galassie.
Ma torniamo all’intelligenza artificiale: le architetture basate sulle reti neurali vengono chiamate anche sistemi di deep learning, ovvero apprendimento profondo. Questi algoritmi vengono già usati in molteplici applicazioni, come il riconoscimento facciale e il riconoscimento automatico del linguaggio parlato (come per esempio le applicazioni di riconoscimento vocale Alexa e Siri), così come nell’ambito della bioinformatica, per rappresentare la struttura delle proteine complesse, e nei modelli di scienze climatiche. Un’altra applicazione di deep learning di cui si è parlato a lungo sui media è il software AlphaGo, sviluppato da Google: nel marzo 2016 riuscì per la prima volta a battere un essere umano al gioco da tavolo go. In quell’occasione Lee Sedol, campione mondiale sud coreano, fu battuto quattro volte su cinque dall’algoritmo. Per intenderci, la griglia standard di go contiene 19 x 19 caselle: è stato calcolato che il numero di tutte le combinazioni possibili sulla tavola sia dell’ordine di 10170, quasi cento ordini di grandezza superiore al numero stimato di atomi nell’universo, 1080. Ho e colleghi hanno usato algoritmi di deep learning analoghi per predire la massa dell’ammasso di Abell 1656. Per allenare il loro modello si sono avvalsi di dati presi da alcune simulazioni della distribuzione di materia nell’universo. L’algoritmo ha così imparato a osservare le caratteristiche di migliaia di ammassi di galassie la cui massa viene calcolata da questi modelli. Successivamente i ricercatori hanno applicato il modello a un sistema reale, la cui massa è conosciuta, per confrontarne i risultati e provare l’affidabilità dell’algoritmo. Questo è uno dei primi esempi di applicazione di intelligenza artificiale profonda per lo studio di strutture a grande scala dell’universo.

«Dalle survey dei telescopi spaziali sono stati raccolti petabyte di dati. Una quantità enorme», dice Ho. «Impossibile per degli esseri umani analizzarli direttamente a mano. Il nostro team lavora per costruire modelli che possono essere affidabili estimatori di quantità, come la massa, e allo stesso tempo cercando di mitigare le sorgenti di errori. Un altro aspetto importante è che gli algoritmi, per processarequesto vasto flusso di dati, devono essere computazionalmente efficienti. Ed è esattamente 31 quello che stiamo cercando di fare: usare algoritmi di machine learning per migliorare le nostre analisi e renderle più veloci». Per produrre i risultati, il team di Ho ha usato le risorse del Pittsburgh Supercomputing Center e dataset di diversi database, come per esempio quello del CosmoSim, che raccoglie dati di migliaia di ammassi a diversi redshift, e quelli prodotti dalle simulazioni N-body Uchuu. Gli ammassi di galassie si presentano come nodi in una vasta rete di materia distribuita più o meno omogeneamente nell’universo. Survey di spettroscopia a larga scala come quelle compiute da Desi, il Dark Energy Spectroscopic Instrument, hanno infatti raccolto dati di milioni di galassie (si prevede che il catalogo di Desi, a fine 2026, conterrà oltre 35 milioni di oggetti), fino a una distanza di 10 miliardi di anni luce. In questo modo è possibile ricostruire una mappa 3D del cosmo e attraverso le analisi spettroscopiche misurarne il redshift. L’analisi della struttura a grande scala dell’universo attraverso le osservazioni di Desi e di altre survey di galassie sarà essenziale poi per confrontare i dati con i risultati di simulazioni della distribuzione della massa nei diversi modelli cosmologici. L’intelligenza artificiale aiuterà i ricercatori a elaborare tutti questi dati e produrre previsioni affidabili delle strutture a grande scala dell’universo.
Per saperne di più:
▪ Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The dynamical mass of the Coma cluster from deep learning”, di Matthew Ho, Michelle Ntampaka, Markus Michael Rau, Minghan Chen, Alexa Lansberry, Faith Ruehle & Hy Trac