Media INAF
LA PROSSIMA FINESTRA UTILE VA DAL 19 SETTEMBRE AL 4 OTTOBRE
Marco Malaspina 05/09/2022
Artemis, probabilmente si lancerà in autunno
La partenza per la Luna slitta ancora. Dopo il “no go” di sabato scorso, dovuto a una perdita registrata nella linea di rifornimento dell’idrogeno liquido, il razzo dovrà tornare al Vab, il Vehicle Assembly Building, rendendo quindi improbabile un nuovo tentativo prima della fine settembre, ma più probabilmente nella seconda metà di ottobre

Crediti: Nasa
Niente da fare. Nemmeno il secondo tentativo – quello di sabato scorso, 3 settembre – ha avuto successo. E il razzo Sls (Space Launch System) destinato a spingere la capsula Orion della prima missione del programma Artemis fino alla Luna – e anche un po’ oltre – resta a terra. La causa? La perdita d’idrogeno liquido registrata lungo un’interfaccia della linea di rifornimento. Perdita che per tre volte i tecnici della Nasa hanno invano tentato di arginare. Non lasciando così al direttore di lancio Charlie Blackwell-Thompson altra scelta se non quella di alzare bandiera bianca.
In particolare, durante il tentativo di sabato scorso gli ingegneri della missione hanno rilevato una perdita in un intercapedine lungo la linea per il carico e lo scarico dell’idrogeno. Sul sito della Nasa viene anche riportato che, durante le operazioni di chilldown (il raffreddamento preliminare delle linee di trasferimento e del sistema di propulsione), sarebbe stato inviato accidentalmente (“an inadvertent command”, scrivono) un comando a seguito del quale è aumentata temporaneamente la pressione del sistema. Nessun problema per quanto riguarda la sicurezza del razzo, garantiscono gli ingegneri della Nasa, che stanno comunque cercando di capire se l’innalzamento inatteso della pressione possa aver contribuito o meno alla perdita.
Di nuovo No go, dunque. E questa volta non si tratta di un rinvio di un paio di giorni: per ritentare il countdown occorrerà attendere probabilmente la fine settembre, se non addirittura ottobre. Insomma, si va verso l’autunno (nell’elenco delle prossime finestre di lancio, le prime utili sono quella dal 19 settembre al 4 ottobre e una seconda dal 17 al 31 ottobre). Questo perché, nonostante non sia ancora stata esclusa la possibilità di sostituire il componente danneggiato intervenendo direttamente sulla rampa di lancio, le norme di sicurezza per i lanci lungo il cosiddetto Eastern Range impongono comunque un ritorno al Vab – il Vehicle Assembly Building – per la sostituzione delle batterie del Flight Termination System, il sistema progettato per distruggere il razzo nel caso in cui la traiettoria esca dal percorso programmato.

Un team di ricercatori dell’Università del Colorado Boulder e del Center for Applied Space Technology and Microgravity dell’Università di Brema ha proposto un nuovo metodo per generare ossigeno dall’acqua attraverso l’uso della polarizzazione magnetica per separare le molecole di ossigeno e idrogeno prodotte dall’elettrolisi. Lo studio, pubblicato su npj Microgravity (una rivista del gruppo Nature), ha dimostrato attraverso questo sistema di riuscire a separare l’ossigeno nella cella elettrolitica in un ambiente di microgravità, in cui le tipiche forze di galleggiamento presenti sulla terra (il principio di Archimede) sono assenti. Nella Stazione spaziale internazionale l’ossi-geno è infatti generato attraverso l’elettrolisi dell’acqua, ma il problema principale rimane quello di riuscire a estrarre l’ossigeno dal generatore per poi utilizzarlo. In un ambiente di microgravità, il processo di separazione di fase rappresenta un problema, non solo per il ciclo elettrolitico ma anche per altri aspetti della vita nello spazio: rimozione dell’anidride carbonica dalle cabine, trasferimento di calore nei moduli, uso dei propellenti nei vari dispositivi a bordo, riciclo delle acque, eccetera. Tutti questi processi richiedono la corretta gestione delle particelle di gas all’interno di un liquido, perché nello spazio i gas dispersi nei liquidi si comportano diversamente rispetto a quanto avviene sulla Terra: senza l’effetto di galleggiamento, le particelle di gas tendono infatti a coalescere e ad accumularsi vicino ai catalizzatori, bloccando il processo.
Attualmente sono in uso diversi sistemi per separare i gas dai liquidi nei diversi dispositivi a bordo dell’Iss, come per esempio le centrifughe. Il problema di questi sistemi è però il loro alto costo di gestione in termini energetici e di massa. Per permettere ai futuri astronauti di compiere missioni su Marte o nello spazio profondo, dove non è possibile ricevere rifornimenti dalla Terra, sarà perciò necessario generare l’ossigeno, riciclare l’acqua e l’anidride carbonica direttamente a bordo, e l’implementazione di dispositivi miniaturizzati adatti a queste necessità sarà cruciale. E il ricorso alla polarizzazione magnetica si prospetta una soluzione adatta per essere usata nell’esplorazione spaziale profonda.

Il team di ricercatori delle università di California e di Brema ha riprodotto un ambiente di microgravità utilizzando la drop tower (o torre a caduta libera) dell’Università di Brema, conosciuta come Zarm. Si tratta di una torre alta 22
146 metri in cui possono essere compiuti esperimenti in quasi-assenza di gravità. Proprio come nell’esperimento di Galileo Galilei sulla caduta dei gravi effettuati dalla Torre di Pisa a fine del XVI secolo, lo scopo di questo labora-torio verticale è quello di simulare l’assenza di gravità facendo cadere lungo un condotto verticale depressurizzato un cilindro in cui è contenuto l’esperimento, consentendo così di simulare la microgravità – nel caso della torre Zarm, per circa 9,3 secondi.
Nell’esperimento sono state effettuate diverse prove, inserendo ossigeno nelle soluzioni acquose più disparate – dalla purissima acqua MilliQ all’olio d’oliva – all’interno di una siringa sottoposta a un campo magnetico generato da un magnete al neodimio. Sfruttando le proprietà diamagnetiche e paramagnetiche delle molecole della soluzione, è stato così possibile rimuovere le bollicine di ossigeno presenti all’interno della siringa e veicolarle at

«Rendere efficiente la separazione di fase in ambienti di microgravità è un ostacolo per l’esplorazione spaziale umana conosciuto fin dai primi voli spaziali nel 1960», ricorda una delle autrici dello studio, Katharina Brin-kert, ricercatrice allo Zarm. «Questo processo è cruciale per i sistemi di supporto vitale a bordo della Stazione spaziale internazionale e delle navicelle spaziali, dove l’ossigeno è prodotto attraverso l’elettrolisi dall’acqua e bisogna riuscire a separarlo dagli elettrodi e dal liquido elettrolita».
Attualmente a bordo dell’Iss sono presenti diversi sistemi per generare ossigeno attraverso l’acqua e l’anidride carbonica. L’Oxygen Generating System della Nasa, situato a bordo del modulo Destiny, e il sistema Elektron, precedentemente sviluppato per la stazione spaziale russa Mir, situato a bordo del modulo Zvedza, usano processi simili tramite elettrolisi dell’acqua. L’Advanced Closed Loop System dell’Esa impiega invece un processo differente, convertendo prima anidride carbonica e idrogeno in acqua (sfruttando la reazione di Sabatier) e solo successivamente estraendo l’ossigeno tramite l’elettrolisi. Questo sistema riesce a ridurre di circa 400 litri la quantità di acqua – e il relativo costo – da trasportare ogni anno a bordo della Iss.
I dispositivi di separazione tramite magneti sperimentati nello studio condotto allo Zarm permetteranno di ridurre il peso e l’energia necessaria per l’operatività di questi sistemi. Gli esperimenti sulla separazione di fase tramite magneti realizzati in microgravità «hanno permesso di ottenere ottimi risultati per gli sviluppi futuri di sistemi a separazione di fase per le missioni spaziali a lungo termine», conclude Brinkert, «mostrando che produrre in maniera efficiente ossigeno e idrogeno in sistemi elettrolitici è possibile anche in assenza di forze di galleggiamento».
Guarda il video della Nasa sul comporta-mento dell’acqua in microgravità:
Per saperne di più:
▪ Leggi su Nature npj l’articolo “Magnetic phase separation in microgravity”, di Álvaro Romero-Calvo, Ömer Akay, Hanspeter Schaub & Katharina Brinkert
CORRISPONDENZE SCIENTIFICHE DEL DI-CIANNOVESIMO SECOLO
Redazione Media Inaf 06/09/2022
De Gasparis, re degli asteroidi nella Napoli dell’800
Ritrovata da Mauro Gargano dell’Istituto nazionale di astrofisica, durante una serie di ricerche alla Biblioteca nazionale di Napoli, la lettera di John Herschel che “incorona” lo scienziato Annibale de Gasparis – precario ante litteram dell’Osservatorio astronomico di Napoli – come il più prolifico scopritore di pianeti dell’Ottocento

Dalla sezione Manoscritti e rari della Biblioteca nazionale di Napoli emerge un piccolo nucleo di lettere indirizzate ad Annibale de Gasparis, astronomo e poi direttore dell’Osservatorio di Capodimonte. Sono sette lettere firmate dai principali protagonisti della scienza astronomica e della cultura di metà Ottocento: gli astronomi britannici John Herschel della Royal Astronomical Society, George Airy dell’Osservatorio di Greenwich e John Russell Hind, l’astronomo di Parigi François Arago e quello di Bruxelles Adolphe Quetelet; ma ci sono anche le lettere dello scienziato ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt e la lettera firmata dal kaiser Federico Guglielmo IV di Prussia.
«Queste lettere», dice Maria Iannotti, direttrice della Biblioteca nazionale di Napoli, «sono state acquistate dalla biblioteca nel 1897 dopo la morte dello scienziato Annibale de Gasparis, a dimostrazione di come questo Istituto ha nel tempo sviluppato le proprie raccolte anche in campo scientifico. Laddove si individua un filone che testimoni l’ambiente culturale cittadino e i suoi risvolti internazionali, la biblioteca è ancora oggi attenta a conservarne la testimonianza».
Precario ante litteram dell’Osservatorio di Napoli, Annibale de Gasparis scopre nel 1849, ad appena 30 anni, il suo primo asteroide, 10 Higiea. Nessuno, o quasi, crede che un così giovane astronomo possa aver davvero scoperto un nuovo pianeta, tanto più che ci vorranno settimane affinché i più esperti astro-nomi d’Europa riescano a osservare l’asteroide. Ancor maggior meraviglia de Gasparis suscita nel novembre 1850 quando scopre 11 Parthenope. John Herschel, noto per aver rea-lizzato un esteso catalogo di stelle multipli e doppie nonché figlio di William, che nel 1781 aveva scoperto Urano, gli scrive una bellissima lettera che gli storici dell’astronomia hanno sempre citato ma che, ritenuta perduta, nessuno aveva potuto consultare se non i contemporanei dello scienziato di Capodimonte.

Ora questa lettera è stata scovata da Mauro Gargano dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte dell’Inaf, e docente di storia dell’astronomia all’Università di Napoli Federico II. «È stato davvero emozionante poter sfogliare e leggere la lettera di Herschel: essa è la testimonianza del più alto riconoscimento al lavoro di de Gasparis e segna un importante risultato nella ricostruzione storica dell’attiva scientifica del principale scopritore di asteroidi dell’Ottocento», spiega Gargano, che da alcuni anni sta scandagliando, insieme a Paolo Palma dell’Unione astrofili napoletani, archivi storici e biblioteche italiane e internazionali per ricostruire la corrispondenza di Annibale de Gasparis, riportando alla luce oltre 500 lettere scambiate con i più importanti astronomi di metà Ottocento.
«Un’importante scoperta, frutto di approfondite ricerche», commenta Marcella Marconi, direttrice dell’Osservatorio di Capodimonte, «che testimonia ancora una volta la ricchezza del nostro patrimonio storico scientifico e il dirompente impatto di uno scienziato che con le sue scoperte ha senz’altro contribuito a gettare le basi dell’attuale filone delle scienze planetarie a Napoli e non solo».
Nella lettera ritrovata, congratulandosi con de Gasparis per la scoperta di Parthenope e ringraziandolo per aver voluto dare al nuovo asteroide il nome già suggerito nel 1849, John Herschel augura all’astronomo di Capodimonte di scovare presto un altro pianetino per potersi cingere il capo di una “tripla corona planetaria”, diventando il primo scienziato al mondo ad avere scoperto tre asteroidi. Sei mesi dopo Annibale de Gasparis scopre 13 Egeria, così battezzato da Urbain le Verrier, l’astronomo parigino scopritore di Nettuno.
La serie di scoperte è stata davvero lunga: nove piccoli pianeti in 16 anni che l’hanno consacrato tra i più autorevoli astronomi d’Europa e che gli sono valsi anche la medaglia d’oro della Società londinese e la nomina a Senatore d’Italia. Insieme alla lettera di Herschel sono apparsi altri significativi documenti come la let-tera autografa del re di Prussia, che lo crea cavaliere dell’Ordine reale dell’Aquila rossa, e il primo diploma dell’Accademie delle scienze di Parigi, che gli conferisce il premio Lalande. L’astronomo napoletano è stato l’unico scienziato a ricevere per cinque anni consecutivi il più alto riconoscimento scientifico dell’accademia francese per la sua consuetudine “ad appuntare in alto lo sguardo e l’intelletto”
LA DISTRIBUZIONE È TRIMODALE
Rocciosi, gassosi o liquidi: i mondi delle nane rosse
Dalla distribuzione per densità di 34 esopianeti di raggio inferiore a quattro volte quello della Terra osservati da Tess emergono tre gruppi ben distinti, associabili a mondi rocciosi, gassosi e – questa la novità – “liquidi”. È quanto riporta uno studio pubblicato oggi su Science da Rafael Luque dell’Instituto de Astrofísica de Andalucía ed Enric Pallé dell’Instituto de Astrofísica de Canarias
Marco Malaspina 08/09/2022

Solidi, liquidi e gassosi. Tutt’e tre potenzialmente in grado d’offrire, ove le caratteristiche 25
lo consentano, condizioni compatibili con la presenza di forme di vita. Parliamo di piccoli mondi in orbita attorno a nane rosse. Esopianeti più piccoli di Nettuno. Sono fra i mondi più comuni attorno alle stelle più comuni della nostra galassia. Insomma, ce ne sono in quantità. Fino a oggi venivano suddivisi in due popolazioni distinte: quelli gassosi e quelli rocciosi. È quella che in statistica viene definita una distribuzione bimodale. Uno studio pubblicato oggi su Science, firmato da Rafael Luque dell’Instituto de Astrofísica de Andalucía ed Enric Pallé dell’Instituto de Astrofísica de Canarias, suggerisce invece che la distribuzione di questi piccoli esopianeti sia in realtà trimodale: oltre a rocciosi e gassosi viene individuato, appunto, anche il gruppo di quelli “liquidi” – vale a dire, formati almeno per metà da acqua o ghiaccio.
Luque e Pallé sono giunti a questa conclusione analizzando un campione di 34 esopianeti fra quelli osservati dal telescopio spaziale Tess della Nasa in orbita a nane rosse. In particolare, hanno selezionato pianeti con un raggio inferiore a quattro volte quello terrestre e dei quali si conosca la massa – perlopiù attraverso mi-sure spettroscopiche ottenute da telescopi terrestri, come quelle compiute con lo strumento Harps al telescopio da 3.6 metri dell’Eso, in Cile – con una precisione migliore del 25 per cento. Quest’ultimo vincolo si è rivelato fondamentale, in quanto ha consentito ai due astronomi di stimare con buona approssimazione la densità dei 34 mondi. Ed è stata proprio l’adozione, come parametro, della densità – al posto del raggio – a far emergere una distribuzione trimodale (vedi riquadro in alto a destra nell’immagine di apertura).
I due astronomi avanzano poi un’ipotesi evolutiva per spiegare la composizione del nuovo gruppo di pianeti: a differenza di quelli rocciosi, che si formano all’interno del cosiddetto “limite della neve” (frost line), i mondi ricchi d’acqua avrebbero origine al di fuori della frost line, per poi migrare verso l’interno – dunque più vicini alla loro stella – solo in un secondo tempo.
Rocciosi, gassosi o liquidi che siano, in pre-senza di condizioni appropriate tutt’e tre i tipi di pianeti sarebbero comunque potenzialmente in grado di ospitare la vita, sottolineano Luque e Pallé nelle conclusioni del loro articolo, ricordando che si tratta di piccoli pianeti osservati da Tess con il metodo dei transiti. Pianeti, dunque, per i quali dovrebbe essere possibile caratterizzare l’atmosfera tramite osservazioni spettroscopiche, e con esse la ricerca di eventuali firme della presenza della vita.
Per saperne di più:
▪ Leggi su Science l’articolo “Density, not radius, separates rocky and water-rich small planets orbiting M dwarf stars”, di Rafael Luque ed Enric Pallé
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